Arcipelago
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16 novembre 2016
LA LUNGA STRADA PER IL VOTO FEMMINILE
Le donne alle urne, una conquista non scontata
di Giuliana Nuvoli
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Il 10 marzo 1946 le donne votano per la prima volta: sono elezioni amministrative circondate da scetticismo. Il decreto legge, voluto da Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti più che dai loro partiti, era stato approvato il 1° febbraio 1945, con una falla: non si faceva menzione delle donne come elettorato passivo: solo nelle elezioni politiche del 2 giugno esse potranno essere elette. Lo scetticismo è sempre lì, ingombrante: ma il 2 giugno è Repubblica.
Per giungere al 1946 la strada era stata lunga, in uno Stato Italiano in cui dominava ancora il pensiero di Vincenzo Gioberti: “La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé” e a cui faceva eco Antonio Rosmini: “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore” .
Voce isolata quella di Giuseppe Mazzini che provava a consolare lo sconfortato Salvatore Morelli, “il deputato delle donne”, cui avevano appena bocciato (1867) la proposta di legge di concedere il voto alle donne: “Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita […] è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù“.
Anna Maria Mozzoni, la capofila delle suffragette, nel 1881, con tagliente ironia si rivolgeva agli ostinati detrattori del voto alle donne: “Se temeste che il suffragio alle donne spingesse a corsa vertiginosa il carro del progresso sulla via delle riforme sociali, calmatevi! Vi è chi provvede freni efficace: vi è il Quirinale, il Vaticano, Montecitorio e Palazzo Madama, vi è il pergamo e il confessionale, il catechismo nelle scuole e … la democrazia opportunista!“.
Qualche tempo dopo (1899) nasceva a Milano l’Unione Femminile Nazionale che pubblica, nel 1905, un’inchiesta sul voto femminile in Italia. Il questionario viene inviato a 500 personalità dell’epoca: sono due brevi domande sull’opportunità di riconoscere o no alle donne il diritto di voto. Rispondono in 140 e l’esito viene pubblicato con una introduzione di Ersilia Majno che, con robusto sarcasmo, si rivolge ai detrattori del voto:
“Tutte queste ragioni messe innanzi per negare il diritto di voto alla donna, farebbero supporre a chi non conoscesse lo stato di fatto che il diritto di voto concesso all’uomo soltanto sia stato esercitato in modo così perfetto, con così grande coscienza, giustizia, sentimento di responsabilità, e con esito così straordinariamente buono per la società, da esigere che tale felicissima situazione non venga compromessa dando il voto alle donne ignoranti, suggestionabili, senza carattere ed energia, capaci nientemeno che di lasciarsi influenzare dai fratelli, dall’amante, dal marito, dal prete e di votare per la reazione.”
Le motivazioni dei due fronti sono varie. Il “no” parte da un lapidario “No, perché sono antifemminista” di Enrico Corradini; passa per un “No, perché esse sono sotto l’influenza fatale del prete” di Cesare Lombroso; si conferma in un sorprendente “No, perché il voto si rivolgerebbe interamente a danno della donna” di Amelia Rosselli; e si incardina spesso nella motivazione che la missione della donna è quella di madre, prima che di cittadina. Il “sì”, che rappresenta la maggioranza dei casi, prende le mosse da un “Sì, perché credo la donna italiana più savia, più equanime, più retta dei signori uomini” del deputato Giustino Fortunato; ricalca, spesso, la risposta di Linda Malnati “Sì, perché il lavoro e la cooperazione femminile favoriscono il progresso economico, intellettuale e morale dell’intera società”; diventa icastico con Ada Negri “Sì, Se può andare a votare il mio portinajo, non so perché non debba andarci anch’io”; e si fa epigrafe oscura nelle parole di Filippo Turati “Sì, perché una donna è un uomo”.
Nel 1906 Maria Montessori si appella alle donne italiane sulle pagine de “La Vita” affinché si iscrivano alle liste elettorali e, in area socialista, Anna Kuliscioff è la paladina del voto alla donna, che i suoi compagni di partito bollano come questione secondaria. Fa epoca la polemica (1910) fra Anna Kuliscioff e Filippo Turati sulle pagine dell’”Avanti” e di “Critica Sociale”: Anna, più intelligente e lungimirante, si appella con passione alla ragione dei suoi interlocutori:
“Perché tanto savio e prudente il nostro Comitato? Il voto è la difesa del lavoro, e il lavoro non ha sesso. […] Allontanare – colla doccia fredda dei piccoli opportunismi politici – questa massa di energie e di entusiasmi dal combattimento economico e politico, significherebbe ritardare le conquiste anche maschili. ”
Ma il partito è sordo, come Turati che si pronuncia contro il voto alle donne per il rischio che “la pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili” rafforzi le forze conservatrici. Paradossalmente, per lo stesso motivo, il conservatore Marco Praga si era dichiarato favorevole. Passeranno decenni di oscurantismo fascista, poi le donne si conquistano il diritto di voto sul campo, con la guerra e la Resistenza.
E in un giorno di un’estate ancora acerba, si mettono i tacchi, si ravviano i capelli e cambiano l’Italia.
Giuliana Nuvoli
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